Leonardo Corazza, stroncato a 21 anni da un tumore: tra le sue montagne fino all’ultimo

La val di Zoldo si raccoglie nel dolore per la scomparsa di Leonardo Corazza, di soli 21 anni. Leonardo è venuto a mancare pochi giorni fa per via di un tumore che non gli ha lasciato scampo. Sono tanti i messaggi per lui della comunità che lo ricorda con grande affetto e dimostra vicinanza e sostegno alla famiglia, che lo ha assistito con cura fino all’ultimo, in questi difficili momenti.

Leonardo ha ricevuto la sua diagnosi un anno fa ed ha combattuto strenuamente contro un male che piano piano lo ha consumato ma che non ha mai abbattuto il suo ottimismo e la sua forza di volontà.

Leonardo, stroncato da un tumore a 21 anni: non ha mai voluto lasciare le sue montagne

Il giovane, innamorato delle montagne che non ha avuto intenzione di lasciare fino ai suoi ultimi istanti, non si è mai arreso nei confronti della malattia e non ha lasciato che dettasse i ritmi della sua vita. La madre di Leonardo gestisce un rifugio dal quale lui non si è mai voluto allontanare, continuando a lavorare finché il suo fisico lo ha permesso.

Ricorda la mamma: “Aveva radici profonde in questa valle, cui era legato come le radici dei mughi sono avvinghiate alla roccia“. La scorsa estate si è anche dedicato, con i due fratelli, a gestire un rifugio tutto suo senza sottrarsi mai al lavoro. In quota tornava regolarmente, racconta la madre, “perché al rifugio c’è da lavorare“. Leonardo ha vissuto come voleva fino all’ultimo “sebbene ne leggessi inequivocabilmente la stanchezza nel suo sguardo“, sostiene sempre la madre.

Anche d’inverno Leonardo non ha lasciato le sue montagne, lavorando agli impianti di risalita di Pecol. “Sapevano della sua situazione, ma ciò nonostante l’hanno assunto, senza difficoltà; sapevano che si sarebbe potuto assentare molto, ma hanno privilegiato la persona: e di questo sono loro riconoscente. Perché questo sostegno che gli è stato garantito è stato fondamentale per assicurargli almeno una parvenza di normalità“, racconta la madre Raffaella.

Conclude: “Se abbiamo potuto seguirlo a casa, evitandogli ricoveri forse “ragionevoli”, ma che l’avrebbero e ci avrebbero ancor più massacrato, lo dobbiamo alla professionalità e alla dedizione del servizio di cure palliative, un fiore all’occhiello della sanità veneta, che forse non tutti conoscono e il cui valore invece va conosciuto e riconosciuto non solo dai cittadini, ma anche dai vertici. Un servizio che, insieme ai nostri storici medici di base, ha permesso a Leo di rimanere fra i suoi affetti fino alla fine“.

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